Rivista internazionale di psicoanalisi Aperturas Psicoanalitícas numero 2 1999

Autore: Hugo Bleichmar
Traduzione: Giovanni Cioli

Riassunto: si prendono in considerazione le motivazioni che attivano il sistema dell’attaccamento nella prospettiva dell’approccio modulare trasformazionale, cercando di delimitare psicoanaliticamente i differenti tipi oggetto dell’attaccamento. Si stabilisce la specificità del desiderio di intimità, le modalità con cui il soggetto cerca di soddisfarlo, il tipo di sofferenza generato quando non riesce –chiaramente differenziabile dall’angoscia della rottura dell’attaccamento-, così come strutturazioni della personalità difensive rispetto all’intimità. Si studia una forma di patologia dell’intimità, il masochismo del dolore condiviso, che rappresenta un modo di raggiungere il sentimento della comunione intersoggettiva. Si riconcettualizza l’affettività all’interno di un modello che in conto l’intrapsichico e l’intersoggettivo, delimitando tre dimensioni: la dimensione espressiva, la comunicazionale e una terza, in cui il soggetto si auto impone l’affettività dell’altro per sentirsi fuso con lui.

Questo lavoro cerca di esplorare psicanaliticamente quali siano le relazioni tra I desideri di attaccamento – e le loro varianti- e un’area dell’Intersoggettività che mette in moto intensi desideri e tensioni: il vissuto, a livello cosciente ed inconscio, che il soggetto e l’altro si trovino o no all’interno dello stesso spazio emozionale, spazio in cui il soggetto può sentire che si fonde gioiosamente con l’altro senza perdere il suo sentimento d’essere o al contrario ha una sensazione lacerante di solitudine anche in presenza dell’altro, di vuoto, che l’altro stia fuori da questo spazio emozionale, sia irraggiungibile anche se visto, anche se c’è uno stretto contatto fisico.
Questi vissuti sono difficili da descrivere a parole perché il linguaggio convenzionale risulta appena adeguato per dare conto di un’esperienza profonda come quella dell’incontro tra il soggetto e l’altro, la cui costruzione rimanda ai primi scambi emotivi in un lento e progressivo processo che va dai primi precursori come il sorriso dei primi mesi per provocare il sorriso dell’altro – incontro di sorrisi- fino al sentimento di condividere un ideale. Quando si pronunciano frasi come “ti sento distante”, “non ci capiamo”, “come se fossimo in mondi differenti”, con tutto il dolore che tali frasi contengono, si sta cercando descrivere a parole qualcosa che appartiene ad un altro ordine: la solitudine nell’istante stesso in cui si sperimenta. Questo sentimento di fallimento dell’incontro non deve essere confuso con l’angoscia, la paura o la tristezza. Si tratta piuttosto di una tensione dolorosa che possiamo collocare all’interno della categoria generica che Freud (1925 OSF vol. 10 pag. 315), per riferirsi all’oggetto perduto, denominò “investimento nostalgico”, che può raggiungere livelli intollerabili quanto si sente che l’altro si trova fuori dalla portata emozionale del soggetto.

È necessario distinguere tra il sentimento di non trovarsi all’interno stesso spazio mentale dell’altro da quello di solitudine prodotto dalla sua assenza. In questo caso si può sentire la mancanza ma non si produce la sofferenza ‘tantalica’ legata al fatto che l’altro sia fisicamente presente ma in un altro luogo psicologico, la sofferenza prodotta dalla sensazione di non occupare il luogo desiderato nella mente dell’altro e, soprattutto, che non è possibile raggiungerlo nei suoi sentimenti, nei suoi pensieri, per provocare in lui/lei una risonanza che renda possibile la sensazione di essere vicini, di intimità. Allora si preferisce rompere con l’altro, non vederlo più, per non sperimentare il dolore del fallimento dell’incontro emotivo nel momento stesso della sua presenza. In queste condizioni l’odio si rafforza al servizio del tentativo di distruggere dall’interno il desiderio di intimità che è alla base della sofferenza.

Attaccamento e intimità sono due condizioni le cui relazioni meritano di essere precisate. Le idee di Bowlby (1969,1973) sull’attaccamento furono molto osteggiate all’interno della psicoanalisi e al tempo stesso dettero luogo ad una importante produzione (si vedano: Ainsworth, 1978; Atkinson, 1977; Baily, 1977; Bernardi, 1988; Lebovici, 1991;Marrone,1998; Murray Parkes,1991;Ortiz Baron,1993;Sperling,1994;Vollin,1998). A ciò contribuì il fatto che lui stesso si opponesse in modo frontale alla tesi Freudiana circa il ruolo determinante della sessualità nella fissazione all’oggetto, vedendo l’attaccamento come indipendente da quella, non provocato dalla pulsione sessuale ma determinato autonomamente e, in una prospettiva neo darwiniana, al servizio della conservazione della specie (Slavin, 1992). Un altro motivo di rifiuto da parte della comunità psicoanalitica fu dovuta al fatto che buona parte degli studi sull’attaccamento ebbero un carattere comportamentale senza penetrare nelle fantasie del soggetto, cercando di descrivere i comportamenti di fronte alla presenza-assenza- ritorno dell’oggetto. Nonostante Bolwby lasciasse chiaro che l’attaccamento dipende da schemi interni (working models), il centro della ricerca non fu la soggettività, l’intrapsichico, la complessità della struttura motivazionale che dall’interno del soggetto determina la sua ricerca di relazione con l’oggetto esterno.

Da parte nostra, in lavori antecedenti (Bleichmar 1997,1999), indicammo che per comprendere ciò che stimola l’attaccamento è necessario considerare i diversi sistemi motivazionali che muovono lo psichismo. In certi casi l’oggetto dall’attaccamento è ciò che permette di avere un sentimento di sicurezza –autoconservazione, come è possibile constatare nel fobico e nel suo accompagnatore. In altri casi è il piacere sessuale ciò che fissa a un oggetto che viene scelto in mezzo ad altri. In questo ordine di cose la tesi freudiana di scelta dell’oggetto e fissazione allo stesso per essere quello che soddisfa la pulsione sessuale trova attualmente ampie conferme non solo a livello psicologico ma anche in base a rigorosi studi neuroscientifici (Insel,1997).

L’oggetto dell’attaccamento può essere, anche, e in modo prevalente, quello che sostiene l’autostima della persona, quello con cui fondersi per acquisire un sentimento di valore, oggetto narcisizzante nelle molteplici dimensioni che abbiamo descritto (oggetto dell’attività narcisistica, possesso narcisistico Bleichmar 1981) alle quali si aggiungono le funzioni che Kohut (1971) denominò specularizzazione e imago parentale idealizzata.

D’altra parte c’è da distinguere l’attaccamento stimolato dal piacere che si origina nella relazione con l’altro (quello sessuale, per esempio, o quello narcisizzante) dall’attaccamento difensivo per contrastare angoscia di separazione, di solitudine, di disregolazione psicobiologica, di intensi sentimenti di inferiorità. In questi casi, l’attaccamento è secondario all’angoscia, come nella Simbiosi difensiva di fronte al terrore della disintegrazione.

  In sintesi, l’attaccamento si realizza con un oggetto dell’autoconservazione, con un oggetto del narcisismo, con un oggetto della sessualità, con un oggetto della regolazione delle necessità psicobiologiche. In tutti questi casi, nella condotta di attaccamento c’è una fantasmatica (di ricerca del piacere o di fughe per dispiacere) che la stimola e una memoria procedimentale che la organizza (Pally, 1997; Stern,1985).

  Il piacere nel sentimento di intimità che si produce nell’incontro con l’altro è una motivazione aggiuntiva per l’attaccamento che non è riducibile né alla sessualità né al sentimento di protezione dell’autoconservazione, e neppure alla valorizzazione nell’area dell’autostima e del narcisismo o alla regolazione psicobiologica. Ad alcune persone è sufficiente sviluppare un attaccamento autoconservativo o sessuale, essendo la possibilità dell’intimità neppure prospettata nella loro mente. Talvolta basta che sia soddisfatta la sessualità, incluso senza che l’altro ne goda, affinché la mente si centri su questo qualcuno.

Riguardo all’autoconservazione, per fare un esempio, il paziente fobico con crisi di panico o un ipocondriaco può manifestare un solido e compulsivo attaccamento al terapeuta – non mancherà mai a una sessione, sentirà angoscia di separazione- ma nella mente verrà rappresentato come uno strumento, una cosa che lo protegge e non qualcuno con sentimenti e necessità con cui si desidera condividere qualcosa.

Altri soggetti non cercano protettori, né che gli si offra gratificazione sessuale, né regolazione psicobiologica e nemmeno regolazione dell’autostima. La loro necessità consiste nella condivisione dello stesso spazio emotivo, nello sperimentare un incontro delle menti. Conseguentemente, così come la psicoanalisi ha descritto un oggetto della sessualità, uno dell’autoconservazione, uno del narcisismo, uno della regolazione psicobiologica (Lichtemberg, 1989), bisogna necessariamente riconoscere l’esistenza di un oggetto dell’intimità.

Il soggetto potrà trovare tutti questi oggetti separati in diverse persone –l’amico o l’amica dell’intimità è chiaramente differente da quello sessuale o autoconservativo- o in una sola persona che adempie a varie funzioni simultaneamente. Esiste perciò ina articolazione complessa tra diversi oggetti, con dissociazioni e condensazioni, che ci mettono in guardia rispetto ad espressioni come “ansia di separazione” che dovrebbero essere specificate rispetto all’oggetto in gioco: cioè riguardo alla funzione che svolge l’oggetto rispetto ai diversi sistemi motivazionali.

Forme dell’intimità

Il sentimento di intimità si raggiunge in modi diversi. Ci sono persone che sentono di essere all’interno dello stesso spazio psicologico se sentono il corpo dell’altro. O, più precisamente, se il corpo di ciascuno è rappresentato piacevolmente nella mente dell’altro. Il tipo di contatto che diventa indice dello stare insieme è molto diverso da persona a persona: mentre per alcuni richiede necessariamente la sessualità diretta, per altri è sufficiente sfiorare brevemente una parte del suo corpo a condizione che questo sfiorare sia anche per l’altro indice di condivisione. Questo “oggetto dell’intimità corporea” è diverso dall’oggetto dell’attaccamento corporeo” in cui il soggetto cerca contatto solo per sentire col suo corpo il corpo dell’altro, in cui si desidera dormire abbracciati all’altro affinché la sua presenza rappresenti calore e sensualità per sé. Diversamente, quando è il corpo dell’intimità ciò che si desidera raggiungere si richiede, in aggiunta, che la mente dell’altro, il corpo dell’altro, sentano il corpo del soggetto: incontro di due menti in cui il corpo dell’altro è vissuto come desiderante e non come oggetto di un desiderio che esiste soltanto nel soggetto.

Altri vivono l’intimità basandola sulla condivisione dello stesso stato affettivo, sia esso di allegria, tristezza sorpresa, interesse, orrore disgusto ecc. Quando il desiderio di coabitare nello stesso spazio emotivo domina il soggetto, si fa tutto il necessario per attivare nell’altro gli stessi vissuti: la comunicazione diventa una azione diretta all’altro per produrre una certa risonanza affettiva, affinché l’altro vibri sulla stessa frequenza. Si arriva persino a ipertrofizzare il proprio sentimento, si isterizza l’emozione per trascinare l’altro. Viceversa può accadere di mimetizzarsi con lo stato emotivo dell’altro per sentirsi insieme. In entrambi i casi l’affettività non è qualcosa in se stessa, non vale per la sua qualità espressiva di manifestazione degli stati interni ma come mezzo per incontrare l’altro. Pertanto la domanda che nella situazione analitica guiderà la nostra percezione del paziente non sarà solo “che sente?” ma anche: “sentirà questo per sentire qualcos’altro?” e questo altro sarà spesso il riuscire a sentire di essere con qualcuno. Per questa ragione si può sentire piacere sentendo di soffrire “insieme a”, la qual cosa genera in alcuni una delle forme del masochismo: il piacere di soffrire deriva dal raggiungere un sentimento di intimità con un altro che soffre. Se questa è stata la modalità fondamentale con cui si è vissuta la relazione con i genitori o con i fratelli –racconti di uno dei genitori riguardo alla sua sofferenza nella relazione con l’altro genitore, o sofferenze sperimentate nell’infanzia- per riprodurre il vissuto della condivisione si ricreerà la sofferenza che fu il l’aria che si respirava insieme. La proposta inconscia di soffrire insieme, sia un amico o un partner o il terapeuta, attraverso il parlare o ricordare fatti ed esperienze dolorose, ha il carattere agrodolce derivato dall’essere la condizione che rende possibile il sentimento di incontro intimo.

La dipendenza dalla sofferenza condivisa, che costituisce tutta un tipo di carattere, ci colloca pienamente nel discorso sul ruolo dell’intersoggettività nella genesi della psicopatologia del masochismo. Quest’ultimo fu studiato in origine come fenomeno individuale: forza che all’interno del soggetto provocava piacere –masochismo sessuale- o attenuava la colpa –masochismo morale- (Freud, 1925), o permetteva di ottenere un sentimento di coesione di sé (Kohut, 1971). Tuttavia il piacere della sofferenza e la sua realizzazione nel presente può radicarsi nelle relazioni in cui soffrire è il modo privilegiato per sentirsi in comunione con l’altro. Da ciò il rischio di una forma di transfert-controtransfert masochista in cui paziente e analista raggiungono un sentimento di vicinanza centrandosi sulle esperienze dolorose.

Di passaggio, così come è un progresso includere la dimensione intersoggettiva nella comprensione del masochismo, lo stesso accade con l’approfondimento delle motivazioni che generano e mantengono la personalità narcisista. Insieme alle motivazioni interamente intrapsichiche, alle difese, in cui l’esaltazione narcisista e il sé grandioso servono o a contrastare sia l’invidia, l’aggressività (“Se sono grandioso non ho niente da invidiare, non sento rabbia” – la posizione di Kernberg, 1975) o perché contribuiscono a compensare fallimenti nella narcisizzazione da parte degli oggetti se (Kohut, 1971), altre cause possono risiedere nell’offerta che il bambino fa a genitori che richiedono questa esaltazione. Ci sono genitori che esigono inconsciamente che il bambino dispieghi una esaltazione narcisistica per offrire non solamente presenza, riconoscimento, ma anche per condividere la loro intimità: si producono insieme fantasie di grandezza che modelleranno in seguito il modo principale in cui la personalità narcisistica reclamerà dall’altro uno stato di esaltazione grandiosa da condividere.

Nozioni come quella di “falso sé” o di personalità “come se” rivestono il carattere che si è strutturato in base all’uso del mimetismo per ottenere intimità: si forza il sentimento, il pensiero e gli atteggiamenti fino a renderli equivalenti a quelli dell’altro per ottenere questo sentimento più fondamentale – il sentimento di intimità – che soggiace ai sentimenti particolari che sono meri prodotti del caso, dell’incontro del soggetto con quello che sentiva l’altro.

Dimensione triplice dell’affetto: espressione, comunicazione-induzione e accomodazione

Buona parte dello sviluppo emotivo, dell’acquisizione del vocabolario emozionale da parte dell’altro, dell’identificazione emotiva con i genitori, il partner o l’analista si produce attraverso il sentire che si è insieme all’altro, per unirsi a lui. Ciò obbliga a rivedere la diffusa concezione che gli affetti sarebbero esclusivamente espressione di uno stato interno, la reazione del soggetto a certe rappresentazioni. Cioè a dire che quando il soggetto è dominato da rappresentazioni che significano pericolo, allora sente paura; quando perde l’oggetto, sopraggiunge la tristezza; quando riesce a realizzare un desiderio compare l’allegria, ecc. In tutti questi casi l’affetto è il risultato, parte di uno stato mentale, effetto collaterale di certe idee. Dimensione puramente intrapsichica giacché gli affetti possono essere esperiti nella più stretta solitudine.

Oltre a questa dimensione intrapsichica dell’emozione – che non richiede la presenza dell’altro né è diretta all’altro- desideriamo metterne in evidenza altre due. Una, più conosciuta, riguarda l’emozione come comunicazione, in cui il soggetto attiva o intensifica una emozione per raggiungere l’altro e fargli sentire ciò che sente, e se l’altro (genitori o analista) è “sordo”, il soggetto deve incrementare il proprio stato emotivo affinché l’altro lo ascolti. È il motivo per cui alcuni pazienti sviluppano una angoscia o tristezza che aumentano quando l’analista non “ascolta”, o quando il sentimento di non essere ascoltato dipende dal trasferire su di lui un oggetto interno –reale nel passato o pura costruzione immaginaria- di genitori insensibili, non empatici che non coglievano i suoi stai emotivi. Emozione “comunicazione-induzione”, destinata a cercare di promuovere nell’altro una risposta emotiva e un posizionamento (un ruolo nella relazione) attraverso il quale risponda alla domanda del soggetto espressa nella forma di quella particolare emozione. Lo stato affettivo negli scambi con l’altro è uno strumento attraverso cui si ottiene che l’altro si comporti o si senta nel modo desiderato. Si tratta di un processo in due tempi: prima si produce nel soggetto un certo stato emotivo; successivamente, con lo scopo di raggiungere l’altro, lo si intensifica. “Isterizzazione” dell’esistente, ora al servizio della ricerca della risposta dell’altro.

Tuttavia, oltre a quanto detto, quando ciò che si desidera è condividere uno spazio psichico, l’emozione compie una funzione che possiamo denominare “fusionale”: come mezzo per produrre l’incontro, l’emozione perde il suo carattere di componente degli stati interni cognitivo-affettivi e viene ad essere convocata per produrlo. Se i genitori prestano attenzione e rispondono positivamente solo quando il soggetto mostra allegria, questo stato affettivo non corrisponde a stati interni (emozione-espressione) ma costituisce il modo autoimposto attraverso il quale il soggetto cerca di stare con l’altro.

In questa prospettiva la genesi del carattere ipomaniaco non si deve sempre a una difesa contro qualcosa che il soggetto sta cercando di negare –il che sarebbe un puro movimento intra psichico – ma può anche essere il risultato della richiesta che il soggetto sia qualcuno che diverte. Se questa relazione interna che il soggetto aveva con qualcuno che lo “obbligava” all’allegria, all’eccitazione si riproduce, adesso, nella situazione analitica, attraverso la proiezione nell’analista di questo altro, il soggetto può avere bisogno di negare e di rallegrarsi per questo altro, cioè può averne bisogno non per compensare rappresentazioni negative proprie ma per sentirsi gradito. Ciò mostra una volta di più che ci sono difese richieste dell’altro, siano esse richieste reali o semplicemente immaginarie cioè prodottesi nel soggetto che crede che gli venga richiesto. In questi casi il soggetto si vede alienato nell’emozionalità e nella modalità difensiva dell’altro non per identificazione – incorporazione di un tratto che l’altro possiede e che viene a far parte del se nucleare – ma per difendere il vincolo.

Modi di conseguire l’intimità

Sebbene condividere uno stato emotivo – sia per imposizione che per accomodamento all’altro- sia uno dei modi privilegiati per ottenere il sentimento di intimità, non dobbiamo universalizzare quella condizione. Alcune persone acquisiscono questo sentimento di spazio mentale condiviso quando fanno qualcosa di pratico in cui l’altro interviene – cucinare, comprare qualcosa, imbiancare una stanza. L’attività agisce per il soggetto come indicatore semiotico dell’”essere con”. L’altro partecipante della scena potrà non esprimere emozioni però per il fatto avvicinare il cacciavite che gli si è chiesto, o per il fatto di anticipare qualcosa per completare un’azione, fornisce un sentimento di unione. “Aiutami a sparecchiare la tavola o rifare il letto” possono essere il mezzo con cui nella quotidianità il soggetto cerca di dare forma al desiderio di incontro. Così come ci sono famiglie che si riuniscono per parlare, per riferirsi stati affettivi, altri raggiungono il sentimento di intimità attraverso la condivisione di compiti pratici quotidiani.

Quanto detto fin qui va indicando come per qualcuno non siano decisivi né il corpo, né l’emozione né l’attività strumentale, quanto piuttosto la qualità molto specifica dell’esperienza intersoggettiva. Ciò non significa che non vi siano quelli che desiderano unicamente di godere del corpo senza interessarsi dello spazio psicologico condiviso, o di raggiungere un proprio stato emotivo desiderato o un certo obiettivo in sé e per sé, senza che questa motivazione sia influenzata da come l’altro si sente. Per questo motivo la polemica tra Fairbairn (1952) – la libido cerca la relazione con l’oggetto- e Freud –l’oggetto è il mezzo attraverso cui la pulsione cerca il soddisfacimento- colloca in termini dicotomici, universalizza, quelli che sono modi di relazione tra il soggetto e l’oggetto: si può usare il corpo per raggiungere un sentimento di unione con l’oggetto, o si può utilizzare l’oggetto, e persino il sentimento di unione, per ottenere la più pura soddisfazione sessuale od obiettivo pratico; o si possono articolare entrambi i desideri e ciò dipenderà non tanto da una qualità innata del soggetto quanto dalle esperienze attraverso le quali il suo psichismo si sia strutturato, da ciò che ricercavano i genitori nel contatto con lui: per esempio che egli fosse qualcuno che si comportava in un certo modo o, altra possibilità, fosse qualcuno con attraverso cui ottenere il sentimento di “essere con”. I modi di relazione del soggetto dipenderanno anche, e non in misura minore, dalle trasformazioni che la fantasia inconscia imprimerà alle esperienze, in questa complessa interazione tra interno ed esterno. Se per esempio lo sperimentare emozioni è percepito come pericoloso e perciò il soggetto le blocca difensivamente al loro affacciarsi, il sentimento di intimità prenderà altri percorsi che potranno dipendere a loro volta dall’investimento narcisistico di certe funzioni –quella del pensare per esempio- e dei suoi prodotti –i pensieri. La relazione non lineare degli effetti degli scambi con le figure parentali ci preserva da qualunque concezione meccanica della trasmissione intergenerazionale. Perciò se i genitori per avere un sentimento di intimità investivano con emozioni angoscianti, il rifiuto da parte del soggetto dell’angoscia può condurre alla ricerca di un tipo di intimità diversa da quella vissuta nell’infanzia, intimità in cui per esempio si condivide un silenzio: si sente che entrambi nella nuova relazione possono condividere silenzio e calma emotiva concomitante. Nonostante l’importanza che l’identificazione possiede nel riprodurre nei figli le modalità delle relazioni che vissero con i genitori, le angosce e i desideri del soggetto impongono trasformazioni che introducono nuove dimensioni. In certi casi c’è interiorizzazione, ma ciò che domina sempre è il processo di interiorizzazione-trasformazione.

L’intimità nella situazione analitica

Vi sono desideri svincolati dall’intimità, o guidati dalla sua ricerca, che imprimono il loro corso alla situazione analitica: se l’analista ricerca semplicemente che il paziente abbia l’insight, o che segua una determinata condotta in relazione a certi ideali di salute/infermità mentale, contribuirà a strutturare lo psichismo del suo paziente in relazione alla motivazione “un obiettivo da raggiungere”. Metaforicamente saranno in tre: il paziente, l’analista e il meta-obiettivo terapeutico. Il paziente sarà per l’analista un oggetto da trasformare e questi, per il paziente, un oggetto strumento per raggiungere determinati fini. Entrambi punteranno ad un obiettivo, e se questo fa sì che si trascuri il desiderio dell’”essere con”, ciò in alcuni pazienti rafforzerà una struttura psichica in cui questo desiderio non fu sufficientemente sviluppato. È quello che succede con certe personalità “del fare” orientate all’azione nel mondo esterno per le quali l’incontro con l’altro è una contingenza che si aggiunge e che c’è da sopportare nel cammino verso la propria meta.
Altri pazienti, per raggiungere lo “stare con” l’analista, modelleranno tutte le loro attività: assoceranno, racconteranno sogni, cambieranno. Il parlare sarà un modo di stare insieme, di ottenere un sentimento di intimità. Perfino l’insight sarà al servizio della necessità fondamentale di condividere uno spazio psicologico. Da questo punto di vista non possiamo trascurare di mettere in guardia riguardo il paradosso di una personalità “come se” che ha l’insight di aver sempre funzionato “come se” però a partire dalla motivazione inconscia di sentirsi unita all’altro di cui sa che gradisce, e con cui si unisce, attraverso questo insight, per cui si rafforza la personalità “come se”.

Simmetricamente, se il desiderio prevalente dell’analista è quello di “stare con”, allora, per alcuni pazienti si rafforzerà questa tendenza che è quella che già dominava lo psichismo, mentre in altri darà origine a qualcosa che non era mai stato sviluppato. Ciò ci allontana da qualunque giudizio di valore “a priori” dall’uno o dall’altro atteggiamento –quello di promuovere l’incontro intersoggettivo, lo “stare con”, o quello della ricerca dell’insight e certi tipi di cambiamento- da parte dell’analista poiché vediamo rischi di iatrogenìa quando si mette in opera universalmente indipendentemente dal tipo di paziente.

Riguardo alla quarta modalità attraverso la quale le persone raggiungono un sentimento di intimità, quella della condivisione delle idee, del pensare nello stesso modo, disponiamo dell’esempio di certe comunità ideologiche – movimenti politici, religiosi, scientifici o professionali – in cui ciò che offre il sentimento di comunione, di intimità, è il fatto di pensarla in modo simile. Leader e sostenitori possono avvertire che formano una unità, che “stanno con”, condividendo il credo ma magari molestandosi quando l’altro propone qualche scambio affettivo o attività svincolata dall’accordo ideologico.

Tuttavia nella dimensione cognitiva c’è qualcosa che va al di là del contenuto delle idee in quanto capace di produrre o no il sentimento di intimità. Per un persona che ha un pensiero organizzato secondo le forme convenzionali di sviluppo del discorso entrare in contatto con qualcuno che pensa maggiormente in termini di processo primario, che collega i pensieri mediante differenti forme di articolazione, saltando da un tema all’altro per poi tornare a quello precedente, lasciando indeterminato di chi si sta parlando (p.e. “allora venne”, e non è stato detto chi è che venne), può generare un senso di dissonanza, una sensazione di malessere, di mancanza di intesa. Allo stesso modo il livello di dettaglio di alcuni ossessivi può risultare opprimente per l’interlocutore, e generare in certe persone il sentimento di non potersi intendere con l’altro perché l’organizzazione del pensiero dell’uno e dell’altro seguono percorsi diversi nel determinare gerarchicamente ciò di cui si parla, ciò che ci si aspetta di sentire nel momento successivo della conversazione.

Oppure ritmo del pensare dell’altro, o troppo rapido o troppo lento per l’interlocutore, fa sentire di non poter seguire il ritmo; asincronia che è vissuta come difficoltà a incontrarsi. Ciò ci porta a considerare, nel sentimento di trovarsi nello stesso spazio psicologico, l’importanza che riveste il fenomeno dell’”intonamento emozionale” (“attunement”), dei ritmi tenuti da parte di entrambi i partecipanti a una interazione, questione che ha sottolineato Stern (1985).

Intonamento o ritmo che abbraccia l’incontro dei corpi o quello affettivo, strumentale o cognitivo. Intonamento che ci interessa per qualcosa che va al di là della possibilità che una certa azione vada a buon fine –la sessualità nella coppia, o nell’allattamento, o il compito terapeutico, per esempio-, giacché interviene in modo determinante per raggiungere questa dimensione sopra ordinata su cui stiamo lavorando, il sentimento di intimità. Sopra ordinata nel senso che il ritmo che rende possibile l’incontro sessuale fa si che ciò renda possibile, a propria volta, qualcosa che il soggetto può ricercare sopra a tutto: il sentimento di comunione psicologica.

Quattro dimensioni dell’”essere con” –affettiva, cognitiva, strumentale, corporea- che nella situazione analitica si riducono a tre –esclusa la corporea non solo per ragioni di dottrina ma per le conseguenze funeste che seguono quando non si fa così- e che saranno i vettori attraverso i quali attraverso cui passeranno le vicissitudini del sentimento di intimità, con i suoi piaceri e le sue angosce.

Le domande saranno: che cosa fa il paziente dal punto di vista affettivo/strumentale o cognitivo per far si che l’analista stia nello stesso spazio psichico, o per evitarlo nel caso in cui ciò provochi angoscia? Che cosa fa l’analista dal punto di vista affettivo/strumentale o cognitivo per conseguire obiettivi equivalenti di approssimazione o distanza, di condivisione o separazione degli spazi psicologici? Che cosa fanno entrambi, indipendentemente da ciò che desiderano, per pura compulsione alla ripetizione che va contro a quello che desiderano?

E, di importanza ancora maggiore: che succede se entrambi hanno modi diversi di sentire che l’altro si trova nello stesso spazio psicologico o di mantenerlo separato? Cosa accade per esempio se caratteriologicamente l’analista sente che lo “stare con” si realizza dal punto di vista cognitivo – pensare nello stesso modo, condividere insights, costruzioni, teorie sul funzionamento mentale- mentre per il paziente la condivisione di uno stesso stato emozionale è un incontro affettivo? Il conflitto è inerente alla struttura dell’incontro e ciò che dal punto di vista dell’analista potrebbe essere considerato una resistenza del paziente sul piano cognitivo, a “prendere coscienza di”, con la stessa legittimità il paziente potrebbe viverlo come resistenza dell’analista all’incontro affettivo. Ironicamente: era Irma che resisteva alle interpretazioni di Freud o era Freud che resisteva all’affettività di Irma? In altre parole il paziente resiste alle interpretazioni dell’analista perché il loro contenuto attiva l’angoscia o per transfert negativo di tipo narcisista, o perché, talvolta, c’è una diversa definizione e necessità, a livello inconscio, da parte dei due soggetti della coppia terapeutica riguardo a ciò che significa “stare con”, della modalità con cui si cerca di raggiungere il sentimento di intimità?

Ma è necessario che vi sia una affettività uguale o simile, cognizioni, attività o incontro dei corpi affinché vi sia intimità? Per certe persone si. Diversamente, per altri, sarà sufficiente che uno dei partecipanti capti ciò che passa nella mente dell’altro –emozionalmente, cognitivamente- lo validi e senta che questa differenza non separa. Due modi di avvertire l’intimità che potrebbe in indurci a considerare la prima come più “immatura”, “infantile”, “narcisista”, termini con cui generalmente si valorizzano le differenze. Da parte nostra, visto che la seconda modalità è molto meno frequente, un ideale solo a volte raggiunto persino nelle coppie stabili, preferiamo collocare entrambe le modalità tra le forme di incontro. Dal punto di vista terapeutico ci conformiamo non al passare dalla prima alla seconda ma ad un ideale che la pratica ci fa conoscere come qualcosa di altrettanto difficile: che ciascuno sappia quale modalità regola il suo incontro con l’altro e ciò che regola nell’altro il sentimento di intimità. Questo sapere sull’uno e sull’altro è già una forma di incontro. Lo è perfino sapere che uno cerca l’intimità e l’altro la rifugge, entrambi per le legittime ragioni che possano avere. In certi casi l’unico incontro possibile consiste nel condividere le profonde differenze che separano.

Differenziazione se non se nello spazio condiviso e sua relazione con lo “spazio transizionale”

Che relazione conserva il concetto di “spazio dell’intimità” con quello di “spazio transizionale”, sviluppato da diversi autori influenzati dalle idee di Winnicott (1971) su ciò che denominerà “spazio potenziale”? Con l’espressione “spazio transizionale” si è cercato di descrivere un tipo di esperienza illusoria in cui la differenza tra interno ed esterno, soggettivo/oggettivo, “me/non me” diventa irrilevante, permettendo che il soggetto non si senta schiacciato da una realtà con cui dovrà lottare tutta la vita e che risulta sempre traumatizzante. Uno spazio di creatività in cui è l’atteggiamento dell’altro –la madre, l’analista etc.- che permette che questa illusione sia mantenuta, accettando che sia vissuto così, e introducendo gradualmente, a piccole dosi, la realtà.

Diversamente, il sentimento di intimità nasce in relazione ad un altro che si riconosce separato dal soggetto –esistendo nella realtà- nel momento in cui, mantenendosi questo sentimento di differenza, contemporaneamente, si vive condividendo qualcosa di importante della mente dell’altro, che siano i suoi sentimenti, le sue idee, i suoi interessi e gli si lasciano vivere. Si tratta di un sentimento di unione in seno a una differenza percepita, unione che produce tanto più piacere perché non annulla la differenza: siamo diversi ma sentiamo, pensiamo, lo stesso. Ognuno esiste nella mente dell’altro e si sente che entrambe le menti hanno in comune qualcosa di importante. È la tensione tra separazione e unione ciò che rende possibile il piacere dell’intimità, perciò non si tratta di fusione totale, di perdita dell’individuazione. A maggior ragione, riconoscendo l’altro come diverso nel contesto dell’intimità maggiori sono le angosce, non esistendo il sentimento di controllo che ha invece luogo nello spazio transizionale winnicottiano. L’intimità si desidera e richiede che anche l’altro la voglia. L’intimità richiede una “teoria della mente”, nel senso che si dà attualmente a questa parola: l’attribuzione all’altro di stati mentali (Fonagy, 1996).

Una volta stabilita questa differenza con lo “spazio transizionale”, il sentimento di intimità con l’altro potrà oscillare, dato che è sempre una costruzione soggettiva, a seconda del momento e delle persone, tra due estremi: da una parte un livello completamente illusorio in cui il soggetto desidera e crede che vi sia intimità con l’altro quando questo non corrisponde a ciò che l’altro sente ed è. Ciò ha correlazione con quanto Kohut (1971) descrisse come “transfert gemellare” in cui il paziente vede l’analista come qualcuno che ha gli stessi pensieri e desideri. Ma, d’altra parte, il sentimento di intimità può corrispondere ad una percezione aderente a ciò che accade all’altro, ad una sintonia tra il soggetto e l’altro. Tra i due poli, quello della più arbitraria soggettività e quello più vicino alla realtà –mai raggiungibile, mai totalmente obiettiva, sempre costruita-, si trova tutta la gamma di esperienze possibili. Pertanto il sentimento di intimità è una costruzione soggettiva per ciascuno dei partecipanti, regolata dai loro desideri, dalle loro angosce, dalle loro difese ma, al tempo stesso, creato tra loro. Applicato alla situazione analitica ciò indica che il sentimento di intimità può essere per entrambi i partecipanti, non solo per il paziente ma anche per l’analista, una pura illusione –uno dei poli menzionati- o qualcosa che si avvicina a ciò che entrambi sentono.

Ma prima di approfondire le possibili combinatorie che hanno luogo quando due soggettività entrano in relazione, dobbiamo considerare l’angoscia dell’intimità perché fino ad ora ne abbiamo parlato come di qualcosa di desiderato. Per alcuni, o attraverso esperienze dirette di relazione con le figure significative, o per identificazione con tali figure che trasmisero il loro modo di vivere l’intimità, o per le vicissitudini delle produzioni fantasmatiche, o per l’articolazione di tutti questi fattori con molteplici direzioni e articolazioni, quello che è certo è che la rappresentazione interna dell’incontro è carica di timore: essere invasi, sottomessi, colpevolizzati, castigati, intristiti, sovreccitati, contagiati dall’ansia, costretti a fare qualcosa di non desiderato, perturbati nei ritmi, disorganizzati cognitivamente ecc. Cioè, violentati corporalmente, affettivamente, strumentalmente o cognitivamente. Lo spazio condiviso è come stare nella gabbia dei leoni. In alcune relazioni tra adolescenti e genitori i primi rifiutano i secondi perché l’intimità porta con sé un sentimento di invasione in qualcuno dei livelli descritti. Lo stesso accade in certe coppie, con l’aggiunta che si può respingere l’altro in una delle modalità dell’intimità, quella sessuale, per esempio, non per rappresaglia narcisistica rispetto alle offese dell’altro, non per il desiderio di frustrare il desiderio dell’altro, non per mancanza di desiderio sessuale, non per essere vissuta con l’angoscia della penetrazione ma per un’altra causa che a queste si aggiunge: la sessualità è significata come intimità che è ciò che causa angoscia per ciò che ha rappresentato nella storia del soggetto. Sull’incontro sessuale ricade il significato dell’”essere con” che è minaccioso per l’integrità del se in qualcuna delle dimensioni che abbiamo segnalato più sopra.

Una delle modalità di intimità che possono generare più rifiuto, mobilitando le difese, riguarda l’impatto traumatico che può generare l’affettività dell’altro. Se questa affettività è eccessiva, mutevole, caotica –genitori borderline per esempio- il soggetto se ne difenderà, arrivando ad eliminare qualunque desiderio di contatto. Nella situazione analitica, se l’analista è ansioso, se il suo modo di parlare, il suo tono di voce, trasmette tensione, se si tratta di un analista preoccupato al modo di genitori che vogliono far sentire la gravità di ciò che è in gioco, il paziente può avere la tendenza ad isolarsi, a “ritirarsi” non per il contenuto traumatico di ciò che si dice, non per rivalità narcisista, ma per lo stato emotivo con cui viene inondato e gli si chiede di condividere, disorganizzante per il suo psichismo.

Questo livello di interazione, che non dipende dal contenuto tematico di ciò che si dice, è quello che è stato più trascurato in psicoanalisi, a tal punto che in non poche occasioni, per riflettere la partecipazione dell’analista si trasmette con la forma “gli dissi che…” mancando la riflessione sugli aspetti paralinguistici con i quali si aggiungerebbe :”gli dissi con un tono di…(allarme, durezza, gravità, distanza affettiva, esagerato coinvolgimento, ecc.), e con un ritmo… (precipitoso, tumultuoso, lento, ecc.).

Come qualunque tipo di desiderio, quello di intimità è inscritto nel soggetto secondo le molteplici aspettative riguardo a quale sarà la possibilità di realizzarlo. Ci può essere l’aspettativa che l’intimità non sarà mai raggiunta, che non ci sarà modo di raggiungere l’altro. Tale disperazione è generata, a volte, dal sentire che l’altro –il partner per esempio-, non condivide una relazionalità che per l’altro è auto evidente, che corrisponde al suo apprendimento di ciò che socialmente si intende per dovere reciproco, le forme con cui ciascuno debba regolare le sue interazioni con l’altro. Questa condizione è illustrata dal paziente che quando contestava alla sua compagna un comportamento inadeguato, la risposta era, secondo il sentire del paziente: “incomincia a girarci intorno, dice qualunque cosa, diventa illogica, e allora mi dispero, mi riempio di rabbia…”.

Se qualcuno ha avuto l’esperienza di convivere nella sua infanzia con genitori irrazionali può arrivare un momento in cui abbandona qualunque sforzo di perseguire l’intimità, pertanto non parlerà di ciò che pensa, sente o si muove. La schizoidia ed il silenzio diventeranno il modo di proteggersi dall’angoscia di mancare l’incontro, dal sentimento che non è possibile porre una base comune per il dialogo e l’intesa.

In altri casi, senza arrivare alla disperazione, l’aspettativa è che l’altro potrà intendere soltanto se gli si forza dentro il sentimento che si desidera comunicare. Un paziente, quando mi voleva trasmettere una idea, una angoscia, una preoccupazione, cominciava a gridare dando per scontato che non lo avrei capito. La frase così frequente “non so se mi capisce” non dipende sempre dalla proiezione dell’incomprensione del soggetto riguardo a se stesso o all’altro ma da ripetute esperienze di non poter raggiungere il sentimento di intimità con l’altro, di abitare lo stesso spazio mentale.

In questo senso, la perdita dell’oggetto dell’intimità –quello con cui l’intimità si realizza- può dar luogo a reazioni emotive equivalenti a quelle descritte per la prima volta da Spitz nell’ospitalismo e da Bolwby riguardo alla perdita dell’oggetto amato, cioè quelle corrispondenti alla protesta per forzare il ritrovamento dell’oggetto. Ma se nonostante la protesta, l’oggetto dell’intimità non si mostra disposto a fare ciò che si chiede, la disperazione e il ritiro passano in primo piano

Difese contro l’intimità

I modi di cui il soggetto dispone per tenere l’altro a distanza, o le difese dirette a mantenere l’altro al di fuori dello spazio intimo, potranno andare dall’allontanamento fisico al ritiro schizoide in presenza dell’altro o agli stati dissociativi in cui si mantiene una parte di sé al di fuori dell’organizzazione di personalità che partecipa agli scambi con l’altro – sé multipli Bromberg (1996) fino all’aggressione per distanziare l’altro (Bleichmar, 1997; Mahler,1981).

D’altra parte si può ricercare l’intimità in una delle sue forme –fisica, affettiva, strumentale o cognitiva – ma rifiutare le altre non perché implichino intimità ma perché impattano il senso di sicurezza nei sistemi motivazionali del narcisismo, dell’autoconservazione, della regolazione dell’equilibrio psicobiologico. Così può accadere che un membro della coppia può ricerchi l’intimità sul piano sessuale ma ciò significhi anche entrare in contatto con qualcuno che perturba l’equilibrio psicobiologico riempiendo d’ansia, o trasmettendo tristezza, o desiderando imporre le proprie idee, perturbando così il sistema narcisistico. Tuttavia, inversamente, l’intimità può essere sovra significata dal sistema narcisistico: “lui/lei condivide con me… per cui mi stima”, per cui ne viene rinforzata la ricerca.

Questa reazione differenziale all’azione dell’altro a partire dai vari sistemi motivazionali – si accetta attraverso uno, si rifiuta attraverso un altro – permette una descrizione più raffinata di ciò che va sotto il nome di ambivalenza, fenomeno onnipresente in tutte le relazioni precisamente perché il soggetto si vincola attraverso una molteplicità di sistemi motivazionali e modalità di ricerca e rifiuto che propone all’altro e dai quali reagisce alle proposte di questi. Più che ambivalenza tra due categorie (amore-odio), ciò con cui ci confrontiamo è la polivalenza, cioè, valenze di segno opposto tra i sistemi motivazionali.

Gli incontri mancati risultano dalle molteplici combinazioni che si possono generare tra il desiderio di intimità, i modi di ottenerla e le necessità che sente un soggetto a partire dai suoi sistemi motivazionali.
Ferenczi (1933) parlò di confusione di lingue per riferirsi alla condizione in cui qualcuno di rivolge ad un altro alla ricerca di cure e protezione e quest’ultimo risponde attraverso il desiderio sessuale. Non importa che il primo sia un bambino ed il secondo un adulto, l’aspetto decisivo del contributo di Ferenczi è che chiarisce una delle varianti dell’incontro mancato tra due soggettività.

Così come la sessualità può essere qualcosa in se stessa, finalizzata a un piacere pulsionale quasi puro, o essere uno strumento per raggiungere l’intimità, i desideri e le necessità degli altri sistemi motivazionali si possono soddisfare senza che sia necessaria l’intimità. Il piacere narcisistico è in alcuni casi proprio ottenibile dal sentire che l’altro non interessa né in quello che sente, né in quello che pensa e quello che fa. Ugualmente accade con la regolazione psicobiologica o l’autoconservazione che da alcune persone è ottenuta in modo migliore in solitudine, senza presenza fisica, emozionale, strumentale o cognitiva dell’altro.

Se il sentimento di intimità fu accoppiato a quello di sentirsi sicuro, protetto, quando non si raggiunge il soggetto può rappresentarsi in pericolo.

Ma siccome lo psichismo non funziona come un sistema di calcolo che massimizza i benefici e minimizza le perdite ma è attivato, in modo piuttosto cieco, dalle distinte forze motivazionali che spingono ognuna nella propria direzione, qualcuno può avere forti desideri di intimità, cercarla sul piano emotivo o corporeo, incontrando tuttavia qualcuno che perturba il sistema narcisistico o quello sensual-sessuale o quello dell’autoconservazione, per cui terminerà rifiutando il contatto. Inversamente qualcuno può essere fortemente spinto dal sistema narcisistico al confronto con l’altro nel senso della demarcazione e della differenziazione per sentirsi superiore al punto di frustrare simultanei ed ugualmente intensi desideri di intimità.

Di conseguenza, in ogni incontro con l’altro, il soggetto si trova esposto non unicamente alle contraddizioni tra i suoi sistemi motivazionali – contraddizioni intrapsichiche- ma anche quelle che risultano dal gioco dell’incontro con l’altro. E ciò vale per l’incontro analitico in cui si attivano desideri e le angosce di fronte all’intimità di ciascuno dei partecipanti, con specificità nei loro domini relativi, e a propria volta, accordo/disaccordo tra i desideri e le necessità dei rispettivi sistemi motivazionali.

Domandiamo allora: nella dimensione ricerca/rifiuto dell’intimità nella quale si muovono entrambi i membri della coppia analitica, che conseguenze ci saranno quando i due la ricercano, quando la respingono o quando una la respinge a l’altro la ricerca? In che modo contribuisce l’orientamento teorico-tecnico dell’analista, oltre alla sua caratterologia per incentivare o fuggire la ricerca dell’intimità? Generano un campo simile, riguardo all’intimità un analista Freudiano, un Kleiniano, Kohutiano, Lacaniano o Interpersonale?

Il fallimento nell’ottenimento dell’esperienza di intimità può articolarsi con tendenze melanconiche o paranoidi, cioè tendenze attributive riguardo a chi ha causato il dolore, la qual cosa conduce a stati melanconici o paranoidi, di auto-etero rimprovero, in cui la preoccupazione per l’intimità passa in secondo piano. Momenti successivi dell’accadere psichico in cui si passa dal desiderio di intimità al sentimento di frustrazione, da questo alla rabbia contro l’oggetto esterno, alle angosce che questa rabbia produce, alle difese di fronte a queste nuove angosce.

Le diverse combinazioni tra le modalità attraverso le quali una persona cerca l’intimità, la relazione tra l’intimità e l’attaccamento, tra l’attaccamento e i sistemi motivazionali, diverse per ciascuno, indicano una volta di più che lo psichismo funziona attraverso l’articolazione di componenti in cui i moduli, articolandosi, subiscono ed imprimono trasformazioni reciproche. Lo stesso, anche se in modo ancora più complesso, ha luogo quando sono due soggettività che entrano in contatto.

Perché si cerca l’intimità?

Se abbiamo affermato che il desiderio di intimità non si riduce alle motivazioni abituali che conducono all’attaccamento auto conservativo, sessuale o narcisista, che costituisce una condizione con una specificità propria, allora, perché si cerca l’intimità? Non rispondendo a questa domanda si correrebbe il rischio di trasformarla in una entelechia. Cosa succede nel momento in cui sentiamo che condividiamo uno stato d’animo? Da un lato si convalida il nostro stato mentale e noi stessi in quanto esseri che hanno stati mentali. Una persona viene così confermata nel sentimento di esistere, nella validità delle proprie percezioni e pensieri nella misura in cui esiste per qualcun altro. Il sentimento di essere soggetti porta il marchio della nostra costituzione a partire dall’altro: il bambino desidera, il più delle volte, quasi dittatorialmente, che l’adulto lo veda ciò che sta vedendo perché il suo piacere di qualcosa necessita ricreare i momenti costitutivi dello psichismo in cui il significato di una esperienza, e specialmente la sua valenza emozionale, non può essere assegnata da dentro ma a partire dai riferimenti che l’altro fornisce. Persino qualcosa che è una disponibilità biologica, il sorriso, è colto nel sorriso e nel piacere dell’adulto che contemporaneamente sorride; o il piacere per un certo piatto e creato da ciò che si osserva nella reazione dell’altro significativo.; o il piacere funzionale delle prime conquiste motorie richiede la risposta giubilante dell’altro che contribuisce a farla esistere.

Come adulti continuiamo a chiedere di essere riconfermati come soggetti per quanto riguarda i sentimenti, i pensieri e le azioni. Riconferma che per alcune persone non corrisponde semplicemente ad un contenuto intrapsichico ma è condizione della sua costituzione perché possa esistere.

Ma sia che l’altro confermi o non conformi (nel senso che dà forma, ci costituisce), giammai smetteremo di avere bisogno che un altro reale o immaginario testimoni la nostra esistenza e il valore emotivo dell’esperienza. Il piacere che troviamo nell’intimità è precisamente questa riconferma. Perciò essa ha un carattere vivificante che non si riduce all’”io valgo”, sviluppo successivo che ha bisogno che si sia organizzato nello sviluppo dello psichismo un sistema di valori, una scala di preferenze, un io ideale, una capacità di confrontare la rappresentazione di sé con quella di un io ideale. Si tratta invece di qualcosa di molto più generale e comprensivo in cui la libido dell’altro, il piacere dell’altro, entra come fondamento del piacere del soggetto nell’essere, nel pensare, sentire e fare.

Una volta che si scopre, dolorosamente, che lo stato emotivo dell’altro, che i suoi interessi e desideri, possono essere molto diversi da quelli del soggetto, il desiderio di incontrarsi nuovamente diventa il motore dello psichismo. Il piacere dell’intimità non è indifferenziazione, cancellazione dei limiti tra sé e non sé bensì affermazione del se nell’incontro con un altro che conferma al soggetto i suoi vissuti ma a condizione che il soggetto lo confermi dentro di sé affinché, allora, l’altro possa sì disporre del potere di assegnare significato ai momenti particolare dell’esistere.

Ostacoli interni all’intimità

Questo requisito che l’altro abbia validità all’interno del soggetto affinché sorga il sentimento piacevole dell’intimità ci mette sulla strada di quali condizioni concorrano affinché si raggiunga Non è solo perché l’oggetto esterno non apporti conferme, fattore sul quale ha insistito Kohut al quale siamo riconoscenti, ma anche perché la stessa aggressività del soggetto deteriora, corrode, la rappresentazione dell’oggetto che potrebbe confermarlo. La critica tendenziosa all’oggetto esterno priva il soggetto del piacere dell’intimità perché fa scomparire colui dal quale ci si aspetta qualcosa e per il siamo qualcuno. Questo è il contributo di Melanie Klein (1940) nel sottolineare le condizioni interne del soggetto che concorrono contro la possibilità di utilizzare l’oggetto esterno per il proprio sviluppo, in questo caso del proprio essere e dei propri vissuti.

La conseguenza che si trae da quanto detto per la terapia analitica è che la riaffermazione del soggetto, e la vitalizzazione del sé che ne deriva, richieda un analista che confermi –la posizione della psicologia del se- ma, inoltre, di un lavoro sulle condizioni interne, in modo particolare l’aggressività e le sue diverse cause, che impediscono che l’oggetto esterno abbia lo “status” necessario, all’interno del soggetto, affinché le sue conferme non siano denigrate – la posizione kleiniana.